11 dicembre 2010

Manie di emulazione



E’ da qualche anno che mi ronza in testa l’idea di tenere in salotto un bel cabinato da sala giochi. Uno di quei botoloni con schermo CRT da 28”, leve e tasti a microswitch sulla plancia, gettoniera, adesivi pacchiani ai lati, luci al neon un po’ ovunque, due sgabelli cromati con seduta rivestita in pelle e un bel set di old games con cui trascorrere qualche ora.

In un periodo in cui il progresso punta tutto sui dispositivi che fanno della multimedialità e della fruizione dei contenuti digitali il loro punto di forza, io mi sollazzo immaginando un cab vintage che brilla in salone.

L’idea è quella di sostituire l’hardware del cabinato con la mia gloriosa Xbox – primo modello, che tengo diligentemente conservata – e sfruttare X-Mame per l’emulazione dei vecchi titoli da bar; il progetto è piuttosto semplice, si tratterebbe di sostituire il monitor originale con un classico monitor TV a tubo catodico e collegarci la console, preventivamente riposta dentro il cabinato stesso.
Il passo successivo sarà quello di collegare gli stick e i tasti presenti sulla plancia con le schede d’interfaccia dei joypad; niente di più semplice, ho un caro amico che con il saldatore e lo stagno ci va a nozze. Una saldatura qui, una puntina di stagno lì e – ZACK! – anche i joystick sono belli che pronti!

E poi via di Pang, Dragon Ninja, Double Dragon, Super Sidekicks e ancora con Street Hop, Burgertime e Dragon’s Lair.

Perché questa voglia di emulazione? Da cosa nasce e cos’è che ci spinge a voler rigiocare i vecchi titoli?

Non credo sia poi tanto facile rispondere ma cercherò di analizzare a mente fredda il mio comportamento e questo desiderio sfrenato che rischia di sfociare nella patologia vera e propria. Indosso camice ed occhialini, mi sdraio sul divano in pelle nera e comincio a vivisezionarmi.

Quello che appare ovvio, a prima vista, è il mio soffrire di quella che, in gergo tecnico, è la Sindrome da Peter Pan: patologia in cui ricade una persona immatura, che non vuole crescere. La paura di affrontare il futuro e i pad con mille tasti da premere nella corretta sequenza, la cosa mi distrugge alquanto. Sono stufo di dover curare i crampi al pollice col Voltaren dopo una sessione a Fight Night Round o di dover prendere il Prozac dopo un torneo a Top Spin.

La seconda patologia evidente è la Nostalgia. Il legame con la mia infanzia è forte e la voglia di poter tornare indietro lo è altrettanto, andare avanti a forza di ‘mezzeluna bassa e calcio medio’ mi aiuta a riprendermi quei dieci o quindi anni di vita che mi spettano. Chi non vorrebbe tornare indietro alzi la mano e si faccia avanti.

Ultima, ma non per questo meno importante, è la voglia di giocare per il piacere di farlo. Il videogame nasce come strumento di intrattenimento e di divertimento, inizialmente un passatempo per impiegare il tempo libero e per sorridere sfruttando un sistema di gioco innovativo come il computer o le console.

Oggi il videogioco è, in buona parte, tecnica eccelsa, simulazione di un mondo reale, possibilità di fare ciò che altrimenti non si può fare; il target del divertimento è cambiato e punta tutto sull’estremizzazione. Non devi più sconfiggere il Boss di fine livello, devi far fuori un’intera galassia; non guidi una Ferrari per il lungomare di Miami con una bionda accanto se prima non stai almeno un’ora in garage a regolare il debimetro, lo spinterogeno e la pinza dei freni altrimenti ti schianti alla prima curva; non fai fuori i nemici saltandogli in testa, devi essere uno sniper con un’iniezione di tranquillanti a portata di mano per non tremare e centrare in piena fronte l’avversario.

Ma io così non mi diverto.

Ho bisogno di principesse da salvare e pozioni magiche per i superpoteri, di camminare da sinistra verso destra e di fare più punti dell’altro, di correre con la palla incollata al piede e di tirare in porta pregando che entri.
Ho bisogno del divertimento.

Portare a termine un film interattivo conduce – obbligatoriamente – ad un divertimento maggiore del saltare da una piattaforma ad un’altra?
La simulazione estrema e la ricerca della realtà a tutti i costi porta davvero tanti vantaggi, in ambito ludico, rispetto ad un mondo abbozzato in cui ognuno vede ciò che vuole vedere?

A fronte di un’elevata qualità grafica ottenibile dalla next-gen è d’obbligo mantenere alto il livello di giocabilità e longevità di un titolo. Questi due fattori pare non vadano di pari passo con l’evoluzione tecnica dell’hardware e, sempre più spesso, vengono accantonati dalle software house di livello medio e da chi i giochi li produce più per fare cassa e per sostenersi in un mercato in cui a sopravvivere sono soltanto i pesci grandi.
I giochi che hanno quel qualcosa in più arrivano esclusivamente da chi ha tanto di quel potere decisionale da potersi permettere di tralasciare le imposizioni del mercato e concentrarsi esclusivamente sulla qualità dell’esperienza di gioco.
Bungie ne è il classico esempio. Il lasso di tempo tra un capitolo e l’altro della saga di Halo è stato direttamente proporzionale alla qualità finale del gioco, il risultato è una piccola sfilza di perle. Una software house con elevato potere decisionale può – e deve – avere il controllo sulla qualità del prodotto finito senza bisogno di inchinarsi alle richieste delle major e dei publisher che decidono l’andamento del mercato.

Alla stregua dei più grandi la libertà nello sviluppo la si trova facilmente nel mercato indipendente, libero da contratti plurimiliardari e penali da stroncare il fiato. Ed ecco che dal mercato indie, dove a dettare legge è la voglia di sviluppare divertendosi e divertendoci, arrivano i titoli che più riescono a catalizzare l’attenzione di chi è interessato al vero intrattenimento. E’ alla libertà d’espressione che dobbiamo titoli come Braid, Plant Vs Zombies, Limbo, Castel Crusher e tanti, tanti altri.

La creatività svincolata dai dettami – sempre più ferrei – del mercato e di chi lo manovra può contribuire, in maniera notevole, ad una crescita qualitativa nell’esperienza di gioco e, grazie ai costi di produzione ridotti, ad una maggiore diffusione del media.

La via per un futuro videoludico appagante deve passare, obbligatoriamente, attraverso le porte della creatività percorrendo le vie della libertà d’espressione e del divertimento.

Ed ecco il senso del cabinato da bar. Dietro quei giochi si nascondeva spesso la passione di una o due persone, l’espressione massima di una creatività incondizionata e insubordinata a scelte di mercato e all’industria del videogioco. E’ questo l’esempio da cui i publisher dovrebbero trarre maggiore ispirazione, orientando i lori mirini verso titoli innovativi e vogliosi di farsi giocare, tralasciando licenze ufficiali, brand e saghe che spesso valgono soltanto il logo stampato in copertina.

Mia moglie dice che il cabinato occuperebbe troppo spazio e preferirebbe invece avere una cassettiera in cui riporre tovaglie e posate da tavola. Mi spiace per lei ma, a casa nostra, sono IO ad avere sempre l’ultima parola… “Si, cara, va bene!”.

1 commento:

  1. Ciao, suono da tempo in un trio acustico di grande spessore. Ormai da anni ci esibiamo dal vivo in arene di grandi dimensioni, con un pubblico competente e di qualità. Tempo addietro abbiamo suonato presso uno tra i più grandi camping del Mediterraneo, presso la nota stazione balneare di Praiola. Proprio lì ho notato, durante il sound check, svariati cabinati anni 80 apparentemente in disuso. Perchè non provi a contattare i proprietari del camping? Magari potrebbero regalartene uno. Per andarlo a prendere potresti chiedere a qualcuno con un'Ape. Arrivare al camping è facile, basta inserire le coordinate sul navigatore satellitare e non seguire la rotta consigliata. Un saluto!
    PS: ti consiglio di tenere d'occhio il mio blog (chiamato La Scimmia). Tra non molto ci saranno scottanti novità!

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